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L'ingegnere sulla luna, 20 luglio 1969

La mia famiglia pose piede sulla luna a settembre del 1954 quando avevo 8 anni. Papà Peppino, emigrato a Milano negli anni ‘20 da Centuripe (Enna), quel mese si era trasferito a Napoli sperando di sanare il mal di cuore. Aveva portato con sé la moglie Bluette, rumena di Bucarest e l’adorato figlioletto; mia sorella aveva 17 anni più di me e rimase a Milano per il lavoro. E non sbagliò. Papà scelse un attico al quinto piano di un palazzo antico in via Chiatamone a Santa Lucia; dagli spaziosi terrazzi si dominava la baia e in particolare Castel dell’Ovo. La mia stanzetta ricordava la cabina di una nave, con letto a castello e finestra a oblò. Ecco, ci sentivamo sulla luna. Nella maturità scoprii che fra i palazzi a ridosso del mare Alexandre Dumas aveva edito la rivista l’Indipendente.

Un motivo in più per giustificare l’affezione per il prolifico scrittore. Papà mi portava ai giardini di via Caracciolo per pattinare; mi accompagnava alla scuola elementare di via Chiaia nella classe del professor Michele Spirito, allegro e originale. Domenica a mezzogiorno si pranzava di fronte allo specchio d’acqua di Castel dell’Ovo, al ristorante La Bersagliera. Ancor oggi è un ritrovo a me preferito. Non eravamo mai soli, ci accompagnava una coppia di amici, fra i tanti che ci frequentavano. Papà soffriva di crisi cardiache frutto degli spaventi nella contraerea in guerra; si aggiungano le sofferenze politiche, il dispiacere per il crollo del mito e della ideologia fascista, e nell’inverno 1954-55 le crisi si acuirono. Il 9 marzo 1955 ci lasciò; spiavo dal buco della serratura l’andirivieni notturno e non sapevo spiegarmi le candele.

Ebbi la sensazione che la luna fosse caduta dal cielo e il ritorno a Milano fu mesto e silenzioso. Terminai le elementari dalle suore, senza amici né diversivi allegri. Mentre noi eravamo a Napoli, mia sorella aveva conosciuto a Milano un bel giovane, biondo, occhi azzurri, mite marchigiano e laureando in ingegneria. Assomigliava a un attore noto, sempre elegante ma sobrio, gran figo. Si sposarono a fine giugno 1957 e la luna tornò, ancora più tonda e luminosa, nella nostra vita familiare. Natale, anzi l’ingegnere, era un fratellone, si poteva scherzare, discutere di ogni argomento.

A fine anni ‘50 Milano rifioriva dopo la guerra: parchi, giardini, locali, campi sportivi, cinema e teatro. Abitavamo a Città Studi, vicini appunto alla cittadella universitaria. Nella lunga estate calda, in genere al sabato, Natale si concedeva lunghe passeggiate e osservavamo la città anche dal tram di cui ho un ricordo struggente.

L’ingegnere mi descriveva i palazzi, le strutture architettoniche, le forme, le forze fisiche e queste passioni non mi hanno abbandonato. Talvolta ci concedevamo un film al cinema Plinius, esclusivamente western o bellici. Passione che non abbiamo mai perso e fino alla fine zio Natale ha avuto in mano lo scettro del telecomando. Dopo il cinema allungavamo due passi all’adiacente e stupendo bar Basso che esiste ancora, per una bibita. Ma come mai sempre e solo quel bar, neppure economico? Mia sorella, moglie di Natale, qualche giorno fa mi ha raccontato che lì di fronte ricevette il primo bacio.

Intanto in quegli anni mi sentivo in paradiso, altro che luna. La coppia si trasferì a Senigallia, simpatica e linda cittadina sul mare. Vacanze estive e divertimento furono assicurate. Per sessant’anni i viaggi si sono incrociati con l’andirivieni dello zio Natale. Devo raccontare un solo episodio in cui la fortuna sembrava averci abbandonato. A fine estate del ‘63 si partì da Senigallia diretti a Firenze; come sempre una colonna con qualche auto di amici. Noi su una Fiat 1500, cambio al volante e azzurrina. Non c’era l’autostrada e a Forlì si optò per i 100 km dell’Appennino. Dopo il passo, una nebbia impenetrabile ci avvolse. Natale sapeva di non potersi fermare anche per il buio che incombeva; si decise che avrei proceduto a piedi davanti all’auto, ben visibile nel trench chiaro. Dopo un paio di chilometri davvero terribili, un sole opaco ricomparve. L’ingegnere ancora una volta era stato grande; al ristorante fui ricompensato con fiorentina e patate; scrissi uno dei primi racconti sul periodico scolastico, Il Feltri.

Negli anni ci rincontrammo a Alba, a Venezia, a Desenzano, a Firenze, a Siena, a Roma, a Cortona, a Gubbio, a Napoli, a Bari, a Mattinata, a Sorrento e via via. L’ingegnere mi aveva inoculato il bacillo del viaggio, diciamo, a 5 lune. Molto di più del turismo di massa.
Quando andavo a Senigallia scoprii che il suo cognome apriva tutte le porte. Addirittura una tessera per l‘accesso alle migliori sale da ballo. Altro che luna.

E così arrivammo a quella notte del 20 luglio 1969. Ci eravamo seduti verso mezzanotte in sala. Guardando la Tv non avevamo l’abitudine di darci al bere e al cibo, per di più quella sera era quasi sacra. L’attesa non fu lunga, chiacchieravamo come sempre di quotidianità, cronaca, politica e l’anno trascorso era stato davvero ricco di fatti. Quando Neil Amstrong e Edwin Aldrin passeggiarono sulla luna sentimmo di essere con loro. Ora lo zio Natale, l’ingegnere, sembra averci lasciato, ma vogliamo credere che sia un pizzico della polvere lunare. Con i suoi occhiali scuri da divo ci guarda da lassù e sorride.

Alla dolce zia Mirella, alle adorate protestine Claudia e Maria Chiara, dallo zio KlaKlio.