Storie senza fine
di Gianni Usai
In una Milano imbruttita, dove i grattacieli toccano le nuvole e i sogni di successo si intrecciano con i destini di chi vive ai margini, un vecchio dal cuore saggio e raggrinzito, decise di costruire una capanna ai piedi di un lussuoso grattacielo.
Non era un architetto, né un ingegnere, ma un abile artigiano delle cose dimenticate, sedie, ombrelli, macchine da cucire.
Raccogliendo legno scartato, casse abbandonate, vecchi alberi di Natale ormai privi di luci, e pali di legno che un tempo avevano sostenuto sogni, il vecchio si mise all’opera.
Con mani callose e un sorriso che parlava di storie antiche, assemblò il suo rifugio, un angolo di autenticità in un mare di vetro e acciaio. La capanna, un mosaico di colori sbiaditi e motivi wabi-sabi, si ergeva come un monumento al naufragio.
C’era qualcosa di magico in quel piccolo angolo di vita, una sorta di resistenza poetica contro l’incessante rumore della modernità e della movida... Gli uccelli vi trovavano riparo, i bambini vi giocavano a fianco.
I passanti si fermavano a contemplare quel curioso accampamento di un tempo passato.
Chi non ha mai costruito una casetta da piccolo? Una "Cicocca"?
Ma come spesso accade, la quiete di un sogno si scontra con la durezza della realtà. Il proprietario del grattacielo, un uomo d’affari elegante e arrogante, gemellone, cravattone, orologione, con un vestito che brillava più del vetro delle finestre, scoprì la capanna. I suoi occhi, abituati a contemplare solo il profitto, si rizzarono inorriditi di fronte a quel simbolo che osava sfidare il suo dominio. Sembrava Cane Nero.
«Che cosa credi di fare qui, vecchiaccio?» tuonò il proprietario, con un tono che sembrava provenire da un trono invisibile. «Questo è il mio territorio! Devi andartene!” Il vecchio lo guardò, con un’espressione che mescolava saggezza e divertimento. «Signore, io non voglio nulla che appartenga a te. Ho solo preso in prestito un po’ di spazio per ricostruire il mio sogno. Non ti disturba, vero?»
«Disturbarmi?» esclamò l’uomo, scoprendo i denti in un ghigno. «Hai idea di chi sono? Questo posto è destinato a diventare un centro commerciale di lusso!»
«E io sono destinato a vivere», rispose il vecchio, con una calma che sfidava l’agitazione del suo interlocutore. «Il mio sogno non si compra né si vende. E la mia capanna è un inno alla gioia, alla vita. Aspetto solo qualcuno con cui parlare, non voglio altro...!»
La scena si riempì di un silenzio teso, come se il vento stesso avesse compreso.
Gli uomini di affari, con le loro cravatte e le loro ambizioni, non erano abituati a sentire parole così semplici, ma così cariche di verità.
La capanna divenne un simbolo, un piccolo faro nel mare di cemento armato. Il proprietario, colpito dalla forza di quelle parole, si trovò a fronteggiare non solo un vecchio, ma un’idea: che la vita non si misura solo in denaro e successo.
E così, a poco a poco, iniziò a cambiare.
Le sue ambizioni si trasformarono, e, sebbene non potesse accettare subito la capanna, cominciò a considerare la possibilità che, a volte, il vero lusso risiede nella semplicità, nel silenzio, nei sogni impossibili.
E mentre il sole urlava dietro il grattacielo, il vecchio riprese a lavorare, con la certezza che, in un mondo che corre, ci sarà sempre spazio per chi sa costruire sogni e capanne.